martedì 19 novembre 2013

I PALETTI DELL'HATE-TUMN.

SOUNDTRACK OF THE DAY
La canzone della bambina portoghese – Francesco Guccini
The silence – Gamma Ray
La pista anarchica – I Ministri
Nymphetamine – Cradle of Filth


Stavo passeggiando in vista di un rifugio, ora che i colori delle montagne sono finalmente di tonalità pastello, quando ho notato che la via principale è stata puntellata da paletti nelle zone più pericolose. "Un po' come la vita", ho pensato. Quanti paletti ho aggiunto, quanti ne ho sradicati negli ultimi anni? Da fidanzati li chiamiamo compromessi, da single diventano convinzioni, sulla fine restano pur sempre sbarre e modi di (non) fare che delimitano i confini tra il nostro raggio di azione e ciò che sta al di fuori, a ricordarci come un mantra che "sì ok Ulisse era un figo ma vuoi mettere una tazza di cioccolata fumante in casa invece di sfidare le colonne d'Ercole solo soletto?"
Quindi, a cosa porta piantar paletti? «A essere ciò che sei», mi son risposto evitando di calpestare una foglia giallorossoverde.


E da dove nasce l'esigenza di averne? In un periodo dove si viene bombardati da slogan e pubblicità non trovo risposte al motivo dei limiti: cos'è che mi dovrebbe davvero servire per stare bene? Muscoli, una Porsche, una cravatta in tinta con l'henné della fighetta siliconata di turno da ostentare durante l'apericena del venerdì? Boh.
Ho perso di vista molti amici negli ultimi anni - quando succede ti chiedi se davvero lo erano o se tu lo eri per loro - ma l'avere più spazio accanto a disposizione non mi ha fatto avvicinare all'orizzonte di un passo, così come se avessi un Suv anziché la Micra non allungherei di un millimetro il sorriso mattutino di fronte allo specchio.
Mio padre continua a dirmi che oramai a trentatré anni dovrei sistemarmi (com'è già che diceva il saggio? Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio?), trovare una donna seria per figliare, che dovrei ammansire la gatta, che se è vero che i sogni finiscono all'alba io mi trovo già in dirittura del pranzo.
Io gli rispondo al solito che sì (e uno), hai ragione!, è solo che ho ancora il viziaccio di innamorarmi delle ragazze fidanzate, di un'attrice che si diverte a scagliare i suoi cuccioli di drago gridando «Dracarys!» - non durerebbe, troppo focosa... - o di chi semplicemente non mi si fila o lo fa per educazione.


Io gli rispondo che sì (e due), la gatta è selvaggia e da qualche mese ostento sulle braccia più cicatrici di un eroinomane, però vuoi mettere condividere gli spazi con qualcuna che dona amore così, d'improvviso, un essere imprevedibile che fa le fusa e quando abbassi le difese ti graffia con aria innocente?


È un po' come l'idea che avevo anni fa di trasferirmi a Rapa Nui: mesi di informazioni e voli pindarici, ok Liuk tieni da parte i soldi e con tremilacinquecento euro riesci a fare un tour del Cile e da lì destinazione Isola di Pasqua, 20/25 gradi ogni giorno dell'anno, Welcome to Paradise e tanti saluti all'italietta delle false convinzioni.
Al solito però il tempo ha iniziato a sradicare alcuni paletti per impiantarne altri, fino a dirmi: Sì, va bene, il mare il sole la quiete e blablabla, ma... e con l'autunno, io che sono scorpione, come faccio? Dov'è l'evoluzione se negli occhi il panorama al risveglio sarà sempre lo stesso? Ricordo che al quarto romantico tramonto consecutivo pure la Grecia mi aveva stufato. È il paradiso, of course, ma forse il paradiso non fa parte di me. Mannaggia a quel maledetto dark side of the moon che allontana dagli ideali seminando di continuo dubbi, che quando sembri convinto di qualcosa spinge l'acceleratore a tavoletta verso un muro e non capisci se è reale o meno... e ogni volta finisci col catapultarti fuori dalla portiera appena in tempo. Il gusto acre di ciò che poteva essere in fondo dura poco, duetre Tequila ed è bello che digerito. Poi si sa, per certe scelte non esiste momento migliore di quello in cui le compi senza pensarci troppo: la notte porta consiglio ma il più delle volte amplifica le indecisioni («Quasi quasi domani mi faccio un tatuaggio» «Risposta sbagliata minchiolo, now or never»).
Ho intenzione di godermi i trentatré anni, adoro i numeri dispari: dividi le azioni in due gruppi, da una parte ciò che reputi giusto dall'altra gli errori e avanzi un annetto che saltella ghignante sfidandoti col dito medio, così lo guardi meglio e ogni volta scopri che ha la tua faccia.
Quindi via Liuk!, anno nuovo significa pur sempre nuova rivoluzione, poco importa se ieri leggendo un libro regalatomi di Tiziano Terzani mi sono imbattuto a pagina 216 in «La rivoluzione è come un bambino; nasce bellino, ma magari dieci anni dopo diventa uno stronzo, gobbo e cattivo.»
In fondo la gioia è proprio lì in attesa di essere scoperta, nascosta come un crotalo all'ombra dei paletti piantati a giustificare inutilmente le nostre rinunce e insicurezze. Si tratta solo di superare la paura dei sonagli e coglierla a occhi chiusi, per il resto "Que sera, sera. Whatever will be, will be", probabile che una volta riaperti ci si scopra meno soli –per quanto questo possa importare, intendo.
Sorridenti, anche, perché no. La vita è bella, pure quando l'autunno termina.
STAY TUNED.


"E poi e poi se ti scopri a ricordare 
ti accorgerai che non te ne importa niente.
E capirai che una sera o una stagione son come lampi 
luci accese e dopo spente.
E capirai che la vera ambiguità è la vita che viviamo, 
il qualcosa che chiamiamo esser uomini.
E poi e poi che quel vizio che ci ucciderà 
non sarà fumare o bere
ma il qualcosa che ti porti dentro 
cioè vivere, vivere, vivere..."

martedì 27 agosto 2013

BYEBYE FARWEST. CRONACHE DAL DESERTO DEL MOJAVE.

SOUNDTRACK OF THE DAY

One bourbon one scotch one beer – John Lee Hooker
I want you – Bob Dylan
Route 66 – Chuck Berry
Caroline – Wolfmother


WEEKEND IN LA



Passeggiare per Rodeo Street, Beverly Hills, è terapeutico. Ti viene da pensare che dietro le varie vetrine di Gucci Valentino Zegna & co. ci sia lo spirito di Freud a battere sui vetri, bum bum bum, senti il rumore delle nocche che sfregano rossastre ma intorno non vedi che ragazze e uomini con borsate di vestiti e quasi ci rinunci a scoprire cosa sia quel rumore, prosegui a mirare altri manichini imbellettati di tutto punto per improponibili feste, credi quasi che basta guardarli per essere parte dell'Americacheconta e proprio quando l'idea inizia ad avvelenarti - giù dalla trachea, glugluglugluglu - di nuovo il sordo rumore delle nocche torna a martellarti.
A martellarmi, per essere precisino.
Dimentichi i nomi griffati e ti dai un colpo in fronte, meglio se accompagnato da un "Ma come ho fatto a non pensarci prima?".
E non ti resta che una cosa da fare: chiudere gli occhi.
Chiudo gli occhi.
Li riapro, riprendo a camminare, le facce e le gambe nude sono ancora tutte lì, la macchina fotografica appesa al collo a mò di zavorra. Poi le riguardi, le vetrine. E, cazzo!, un Freud psichedelico e bellissimo con la t shirt sgargiante come quei personaggi hippie peace&love che abbelliscono le spiagge di Venice Beach è immobile e ti fissa. Mi fissa!

Fa l'occhiolino e poi scompare, ma non ti credere, la vetrina mica torna a violentarti i bulbi oculari con quei manichini pazzoidi, eh no!, eh no mio caro lettore, al loro posto c'è il senso dell'illusione, l'amore di plastica, il messaggio che lo psicologo barbuto ti ha lasciato prima di tornare evanescente.
Tutto è effimero e tutto è ciò che credi erroneamente amore.
Hai presente adesso?, li visualizzi bene i volti di quegli pseudoamori passati?, quelli che ora ti vergogni a ricordare, di quelli che giustifichi te stesso col "Sì vabbè ma a quei tempi non capivo niente?"
Passeggi, passeggio, e per qualche minuto in ogni vetrina di Beverly Hills vedi il volto di una persona che credevi di aver amato, quasi fossi un Ebenezer Scrooge californiano in via di improvvisa penitenza. E così anch'io, a riempire le vetrine di SilviaChiaraFrancescaAnnaStefaniaElisaEcceteraEccetera, nomi su nomi su nomi che sovrapposti si mischiano fino a divertare null'altro che lettere prive di senso, così dalla confusione mi giro a guardar la collina e vedo altre lettere a comporre la scritta "Hollywood" e rido – ma sottovoce eh, che di fronte ci sono due cinesine carucce non vorrei far brutta figura.


Le cose finte sono quindi lettere sovrapposte? E quelle vere, che sono? Ma poi, cosa sono le cose? E ancora: possibile che non posso semplicemente godermi una passeggiata?
Poi l'incanto sparisce, è tempo di rimettersi in marcia verso Las Vegas e i manichini tornano a governare il quartiere di plastica, la via degli amori che non erano tali, degli oggetti che mai e poi mai ti sciacqueranno le macchie dell'anima.
Los Angeles è digeribile come una torta al botulino, dove a ogni fetta ingerita non capisci se a esser finta sia lei oppure tu. E ti ritrovi col piatto in mano a chiederne ancora, solo un'altra, che male potrà mai farmi in fondo?
Il sogno americano è l'oblio dell'incubo europeo.
In quel caos da videogioco è semplice capire ciò che sta dietro a El Pueblo de Nuestra Senora de los Angeles de Porciuncula de Asis. In una città con quel nome non c'è da stupirsi del traffico assurdo. In fondo noi siamo esseri umani privi di ali, non angeli, perdìo!



BRYCE CANYON

Il rosso. Il giallo. Il Diosolosachetonalità. Il Bryce Canyon è l'ultima goccia della madre di ogneccosa precipitata sulla terra, prima che entrasse in menopausa.

E' pioggia fertile sotto forma di deserto.

ON THE ROAD

Nevada, con le sue luci della notte che non ne vuole sapere di uscire dalla tana.
E via, attraversarla guardando gli infiniti tralicci provenienti dal nulla, dall'inferno?, verso la città della plastica elettrificata.
E seguire la direzione opposta.
Controcorrente.
Borderline di me stesso.
Avanti, dunque. Fino a scovare il cartello Arizona, coi suoi cactus che ai lati pungono e vengono punzecchiati dal vento. Tutt'intorno arenaria fin dove la retina ne sopporta il riverbero. Eppure anche qua l'America si mostra implacabile e dolcemente nostalgica, tempo di ambientarsi al termine Arizona che il verde, il lago, i Navajo, le betulle, l'aria frizzante, le casette di legno pace&empatia si fondono in una parola di quattro lettere: Utah. Aiutati che 'l ciel t'a-Utah.
Le strade tortuose ti shakerano fino a che non ti si sgasa l'acredine del finto vivere di Los Angeles e Las Vegas, tanto da iniziare ad amare ugualmente quelle contraddizioni, quasi che l'America sia in realtà un insieme di pensieri e convinzioni antitetiche della nostra vita. Contrastanti. E tutto sommato vere. E nella loro stramba concezione di vita dipesa dal petrolio, inizi a dirlo sottovoce, con meno vergogna di una settimana fa: God bless America.



ANTELOPE CREEK

Se alzi lo sguardo, c'è una ferita azzurrognola denominata cielo.
Se poi te ne freghi del torcicollo e di inciampare nella gola di sì e no due metri ti si insinuano pensieri da stillicidio: e se fossi finito in una clessidra e in questa grotta la mia vita fosse capovolta? E se sfidassi la gravità e saltando cadessi nel buco infinito che ora è il cielo?
Mi riprendo, tocco le pareti guardando avanti e ringrazio gli dèi di aver fatto sì che questo lembo di Gaia sia stato costruito con pietre friabili, preservandole dalle pazzie degli architetti.
Sfioro la sabbia e la sabbia mi parla in un silenzio scintillante.
Un giorno capirò le sue parole, lo so. E anche tu.

ALBA AL MONUMENT VALLEY

Superato l'invisibile confine tra Utah e Arizona, nella terra dei Navajo.
La Monument Valley è lì, le Tre Sorelle mi aspettano e tra le prime luci dell'alba il silenzio che mi ammanta echeggia tanto da far male alle orecchie. E capisco il senso, mentre affondo le caviglie nella sabbia, di quando da piccolo leggevo le poesie indiane che spiegavano "La voce della terra è la mia voce".



BREAKFAST

La giovane navajo sorride premurosa che il piatto della colazione non mi ustioni le dita. Io ringrazio e guardandola negli occhi comprendo quanta dolcezza ci sia in quel sorriso spontaneo. Mangio, mi porge lo scontrino e sul retro ha disegnato col trattopen verde il volto di un topino felice con sotto scritto Thank you.
Giuro, certi piccoli dettagli fanno bene al cuore.
Che poi uno può ascoltare tutte le radio stazioni che vuole ma la frequenza dell'Amore Universale si trova sempre e solo tra le pieghe di un sorriso.

SUA MAESTA', GRAND CANYON

Bob Dylan mi ripete dalle cuffie dell'iPod che The times are A-changin', io passeggio con lo sguardo fisso su quelle fratture di rocce sabbia calcare e granito che è il Grand Canyon e faccio sì con la testa. C'è una frattura in particolare che ti rapisce. Cioè, è tutto così strawow che l'occhio fatica a registrare i dettagli e ti senti spaesato come una macchina fotografica che per mettere a fuoco il paesaggio continua a smuovere gli ingranaggi, tuttavia c'è un punto dove ti si scatena l'entusiasmo delle domande a cui vorresti davvero rispondere. Una frattura taglia il paesaggio e si perde verso l'infinito, eppure allo stesso tempo la voglia di scendere laggiù, scaricare lo zaino dai rimpianti e riempirlo di gioia, pur sapendo di non fare ritorno, è lì a premere.
Che certe cose non vanno ragionate.
Vanno vissute.

E un po' mi è dispiaciuto non aver indossato la tuta alare per lanciarmi. Una parte di me continua a dire che se l'avessi percorsa avrei trovato il luogo dove finiscono gli arcobaleni, il luogo dove le anime dei viaggiatori lavano la loro coscienza, il moleskine e l'infradito.
Nel romanzo che prima o poi uscirà, River alla fine dell'arcobaleno il pentolone lo trova. Dentro non c'è oro ma un biglietto con su scritto "Try again". Questo perché lui questo posto non l'ha visto. Sono sicuro che avrebbe apprezzato.
Fino a ieri il Grand Canyon era la mia più bella cosa mai successa. Oggi che mi ha permeato di magnificenza e malinconia, non mi resti che tu. Quando saprò chi sei te lo dirò, giurin giurello. The times are A-changin', dopotutto.
Il Grand Canyon è una puttana anarchica e caritatevole che ha aperto allo stesso modo le gambe a me e alle altre persone intorno, consapevole che ognuno di noi a un certo punto dovrà chissàcome saldare il conto.
Per adesso, grazie.

THE JOSHUA TREE

Oggi ho avuto una visione, di quelle vere e rivelatrici intendo, non c'entra nulla la solita temperatura a 100°F, le sinapsi erano tutte belle fresche e vigili. All'entrata del Joshua Park – sì, lui, quello del disco di quel gruppo irlandese - ho visto la donna che possiede le caratteristiche in grado di smantellare la mia coriacea corazza da single, con tanto di braccio tatuato a colori e aura da pacifista. Ciò che non sarà mia moglie, I suppose. E allora perché invece di scriverlo non ti sei semplicemente presentato e poi chissà?, perché?
Perché? Semplice. Potrei giustificare me stesso dicendo che non era quello IL momento, che non so in che lingua comunicare... le scuse arrivano tranquille in doppia cifra ma la verità è che ne ero terrorizzato. E la vera verità è che ancora oggi, nonostante 32 anni e 10 mesi di ricerche, continuo a essere uno stupido, nella migliore delle opzioni. Sappiate solo che se mai doveste vedere il Joshua National Park, dopo l'entrata principale vi imbatterete in un bar e lì la Dea – chissà come si chiama, qual è il suo colore preferito, se nel cassetto dei sogni ha ritagliato lo spazio per un viaggio in Italia - la incontrerete seduta di fronte al Pc, intenta ad arricciarsi i capelli. Neanche Bye le ho detto uscendo, certe volte mi prenderei a calci nel culo fino a far sanguinare l'ombra.
Comunque.
Il parco è uno spettacolo, la faglia di Andrea si è mostrata in tutta la sua bellezza e da buon geologo mancato ho goduto del panorama con sottoretina i ricordi della lussureggiante Rift Valley. Il deserto del Mojave incontra quello del Colorado con l'imbarazzo di due cugini che alla cena di ferragosto scoprono di avere la stessa madre, pur se esteriormente pochi dettagli ne avessero anticipato agli occhi dei meno attenti la rivelazione.

E' l'infinito, e io non ho fatto altro che saltellare da un masso all'altro cercando l'equilibrio per vivere al meglio il momento senza disturbare. Sono rimasto a fissare lo spazio in silenzio, un po' per godermi l'ennesimo Panorama delle Mille Domande e un po' per non infastidire a distanza i gesti della ragazza tatuata contenitrice dei miei ideali.

COSA HO IMPARATO DAL VIAGGIO?

Attraversando la Route 66, tra contraddizioni della real america, vite gonfiabili giocate ai tavoli della roulette, orizzonti creati da dèi in stato di grazia e storie di persone splendide – non personaggi, persone - che non ho intenzione di abbandonare senza intrecciarne ancora il mio destino al loro, il messaggio che ho compreso sta in un adesivo comperato a Falstaff, pronto pronto per esser appiccicato sul bagagliaio della Micra:

E' l'amore, nelle sue mille sfaccettaure, a smuovere le cose. Tutte le altre azioni sprovviste sono poco meno di gesti meccanici, privi di significato al di fuori della sopravvivenza fisica e momentanea. Le persone che ho conosciuto in questi giorni le amo tutte indistintamente, e una volta compreso questo cosa può torcermi la paura?
Possa il Far West depositare i crotali delle insicurezze nella distesa del tuo cuore priva di rocce e anfratti, oh lettore.
La paura è buio, l'amore è fluorescente.

CHICAGO

Alla fine del viaggio non si trovano pentoloni d'oro, dunque, ma locali di una città splendida che odorano di storia e musica blues.

Il blues, sì. Quello vero, intendo.
Quello che sfrega l'amuchina sulle ferite del tuo cuore dopo averle scartavetrate a suon di scale pentatoniche e gorgheggi in Si minore.
Il blues ti tende la mano e nel momento in cui decidi di accettare il suo invito ti trasformi nel megafono di te stesso.
E così mi son ritrovato a scolare qualche birra locale, di fronte ai deliri di una armonica al sapore di veleno che dopo avermi riportato ai livelli di quando la chitarra era la mia espressione mi ha sbattuto a terra con violenza, lasciandomi affogare in un mare di post-it zeppi delle mie insicurezze.
Il blues è un demone mai in saldo, oh lettore.
Puoi non vedere, puoi rifiutarlo, lui comunque se ne frega ghigna e fa leva sui tuoi dubbi a suon di Mi settime e La maggiori.
Il blues è l'amante che ti sporca di rossetto il vestito buono.
Il blues è lo specchio che ti mostra gli errori irrisolvibili.
Il blues, sì, il blues, sono io che ti guardo vivere mentre colpisco sempre più violento la campana di vetro che mi impedisce di raggiungerti, senza preoccuparmi se una volta libero mi vorrai vedere.
Il blues è la mano lorda di fango pronta a darti la carezza più dolce che mai.
Il blues è la Mamma Oca che ti spinge verso la libertà senza spiegarti che cosa sia.
Il blues è il punto interrogativo che sta sospeso nell'attimo precedente al nostro possibile primo bacio.
Thank you, America.
Immergendo le mani nel brodo delle tue contraddizioni ho trovato altre tessere del mio puzzle, immagini domande e risposte sono un poco più chiare, ora.
May the long time sun shine upon you.

lunedì 12 agosto 2013

OGNI STOP È SOLO UN ALTRO START.

SOUNDTRACK OF THE DAY

Badlands – Bruce Springsteen
Oggetto piccolo (a) – Virginiana Miller
Surrender – Cheap trick



Poco fa son sceso a far spesa e in buca c'era una grossa busta marrone ad attendermi, di quelle che fai mente locale, pensi a cosa hai combinato negli ultimi tempi e la sfiori col sudore freddo che sfida l'afa. Dentro c'era il diploma della Holden. Spiegazzato, of course.
Anche quel sogno si è realizzato –o meglio: il diploma è un pezzo di carta che sta lì a pizzicarti le guance per svegliarti, che il mondo competitivo se ne fa ben poco di chi adora la fase onirica.
Anche Zooey me lo ripete ogni mattina, tra un meow e un morso sulla mano.
E così, a livello letterario, sono di nuovo orfano.
E ora? Il romanzo è terminato ma l'attesa di un editore no, tanto che al posto di prendermi una pausa mi sono impregnato di mille progetti. Così facendo posso rispondere a mia nonna, quando ogni giorno mi ricorda che è ora di trovarsi una ragazza bella e intelligente, che «Ora ho altro da fare.»
E che sarebbero queste scuse?
Ho iniziato a studiare il russo, per esempio.
A forza di lavorarci insieme mi son detto che se loro mi parlano in italiano, sicuro il russo lo saprò pure io. E che cavolo. Beh, è tosto in effetti. Per di più sto imparando da solo, anche se in autunno da qualche parte un corso lo troverò e ogni tanto una simil collega mi corregge volentieri gli strafalcioni.
Il loro alfabeto è, come dire, affascinante. Lo giuro. Scrivere C ma pronunciare S. Scrivere P e pronunciare R. Cose così.
Ma una cosa è davero stupenda: a differenza nostra, ogni suono ha un simbolo ben preciso. Voglio dire: noi scriviamo G e la leggiamo GI o GH a seconda della parola (che ne so... gioco, gatto), loro hanno due simboli ben distinti. È un po' una metafora dell'umanità: a ognuno di noi corrisponde un suono univoco, ma solo imparando tutti i suoni con le loro differenze si può comprendere la comunità. Così al momento ho imparato a leggerlo, pur non sapendo ancora COSA leggo. Mi sembra di tornare indietro di anni ai tempi delle superiori, quando studiavo i testi di diritto penale senza capirci nulla! smile
Che altro? Ah sì, a volte mi sveglio la notte con l'eco di un frrrrr frrrrr potente. Capita che a fianco ci sia Zooey ma più probabilmente la colpa è del sogno ricorrente di accarezzare il ghepardo che ho visto qualche mese fa.
L'Africa è subdola, tu lavori vivi mangi urli scopi giochi ma quando ti addormenti dimentichi che è lei ad avere le chiavi dei tuoi sogni. E non posso che accettarla, accoglierla in me.
Pure se il giorno dopo al lavoro avrà a che fare con progetti di granito ed edifici russi: l'Africa, della realtà, se ne frega. Che abbia ragione lei?
L'ho visitata per trovare certezze e ora convivo con un altro campo mentale seminato di dubbi e domande. E ogni volta che chiudo gli occhi ghepardi aquile elefanti e leonesse potano le erbacce e curano i baobab. Bah. Comunque.
Il romanzo è terminato, dicevo.
Mancava un tassello, in verità: visto che parla indirettamente della cultura hippy e visto che nelle domande ci sguazzo allegro mi sono deciso di sorvolare l'oceano e vivere i posti dove tutto ha avuto inizio. California, Route 66, Grand Canyon, Far West... parole che a breve trasformerò in immagini che diverranno emozioni e forse mi chiariranno alcune domande sul perché infestiamo questo pianeta. Credendoci superiori agli altri esseri viventi, tra l'altro.
Che possiamo fingere saggezza all'infinito, ma le risposte importanti ci vengono sempre fornite dalla natura, mai dagli uomini (Bruce Springsteen, perdonami smile ).
Già so che al ritorno avrò ancora più dubbi, ma se riuscissi a trovare anche solo un barlume di senso a tutto questo sperperare attimi, beh... vi terrò aggiornati.
Male che vada finirò col confondere Navajo e leoni, nel dormiveglia.
E poi a Los Angeles c'è Tim Burton, se davvero quella è la terra delle opportunità allora lo incontrerò. Poi chissà. Ah, son preso bene!, anche se abbandonare la Zooey per qualche giorno mi stringe il cuore (ora mi sta fissando col dentino fuori, agguato in vista).


E quindi via!, di nuovo in viaggio verso me stesso col mio fido moleskine, alla ricerca di ispirazione per il prossimo romanzo (che girerà attorno alla domanda «E se in una lacrima fosse racchiusa tutta la tua storia e di chi ti sta accanto?») e di un qualcosa.che.non.so in grado di rendermi un uomo migliore.
Alla ragazza che un giorno incontrerò farà piacere, forse.
A mia nonna sicuramente.

STAY TUNED

lunedì 25 marzo 2013

#1. SILVERBACK.



--Non saprei. Mi chiamo Esmeralda, ho
--No, il verbo avere non è importante
--Sono nata 34 anni fa in quel di
--Non importa il luogo. Continua
--Di professione sono amministratrice in
--Parli di lavoro? Seriamente?
--...
--Così va meglio. Ottimo inizio
--...

La cosa assurda è l'impressione che lo stomaco sia lì lì per brontolare eppure non riuscirei a ingurgitare neppure un lindor. Non che ce ne siano, in giro.
A dir la verità non c'è null'altro che questo strambo tizio, affascinante perché no. Peccato per le basette malcurate. Che poi, in fondo, voglio dire: finiamo in fretta la trafila doganale che non ne posso più, manca poco e dimentico pure chi sono, altro che rispondere a sto qua. E neanche un orologio!, da quant'è che son rinchiusa in questa stanza?! Forse dovrei chiedere un telefono. Sì.

--Ecco, io avrei bisogno di fare una telef
--Cosa ricordi?
--...appunto
--Si dimentica in fretta sai?
--È un male?

Ride. Io ripenso a mio figlio. Bah. Ha i capelli decisamente lunghi per essere un poliziotto. Strano.

--Cosa ricordi di te?
--Io, ecco, volevo solo capirmi
--Cosa ricordi di te?
--Un richiamo. Ha presente?, di quelli che non se ne può parlare con nessuno e lo senti crescere e fai finta che non esista fino a quando un giorno buuum!, non puoi ignorarlo
--Continua
--Non volevo dimostrare nulla, glielo assicuro
--Davvero?
--Beh, sì. Insomma. Ho 34 anni, me la merito una vacanza
--Il verbo avere, ancora...
--...
--Continua. Quindi non lo hai ignorato
--No. Credo sia normale in fondo, giusto? Voglio dire: commettere azioni che, sì insomma, se le fa un altro dici "questa è pazza". Poi le fai tu e dici "chissenefotte dei commenti"
--E sei partita
--Ma davvero non c'è nulla da mangiare?

Ride. L'elica sul soffitto gira troppo lenta, ho il disagio delle ascelle pezzate.

--Com'è stato l'impatto?
--Con Kampala, intende?
--Sì
--Ho viaggiato di notte, volo insonne. Sa, l'emozione, il non sapere dove dormire, queste cose. E comunque è il mio primo viaggio da sola, questo
--Continua. L'aria, com'era?
--"La città delle possibilità", ho scritto sul moleskine. Se solo mi permettesse di riprendere i bagagli glielo potrei mostrare
--L'aria
--Densa, direi. Un caldo diverso da quello di casa mia. In fondo se la vostra bandiera ha il nero il rosso e il giallo proprio tanto fresco non può fare

Non ride. Continuo.

--Come ho già ripetuto, i miei parenti le possono confermare i dati, a casa ho le mail di ricevuta del viaggio di andata, basterebbe una semplice
--Che cosa stavi cercando?
--...
--Ottimo. Non una risposta immediata

Lo vedo scrivere sul suo taccuino; ha una grafia da medico, cerco di sbirciare meglio ma usa la matita senza perdere di vista i miei movimenti e la lampada puntata verso di me non aiuta. Che poi anche leggessi non capirei nulla, mi sa. Mi manca il fiato, la stanza sembra sempre più piccola.

--Emozioni. Cercavo emozioni
--Di solito rispondono "me stessa" o "radici". Che intendi per emozioni? Non ne avete, in europa?

Tzè, europa. Certo.

--Come le ho già ripetuto, abito a Istanbul
--Che tipo di emozioni?
--Insomma, cosa vuole sapere? Volevo vedere i gorilla, mi pare ovvio! Che ci sarei venuta a fare se no?
--...
--Mi scusi
--Gorilla, quindi. E si può sapere il motivo?

No. Questo non lo saprai.

--Mio padre viaggiò molto, prima di sposarsi. Da bambina mi raccontava storie che
--Dall'aeroporto, dicevo. Come si è spostata?
--Ho aspettato che il primo taxi mi portasse alla strada principale, avevo l'indirizzo per un hotel in centro
--Ricorda qualcosa del tassista?
--Mi dispiace, no. Ho una pessima memoria visiva. Per gli esseri umani, intendo. Ricordo i discorsi però. Ricordo, sì, che quell'uomo si è lanciato a spiegarmi le costellazioni
--Perché mai?
--Non so. Forse mi avrà vista turbata da tutte quelle luci. In fondo dalla terrazza di casa mia non si vede mica la Croce del Sud, il manto stellato è completamente differente
--E cosa gliene pare?
--...
--...
--Incredibile. Mi ha fatto sentire minuscola
--Già. E' messo lì apposta
--Poche luci attorno, poi. Che spettacolo. Tutte quelle stelle così brillanti eppure ero immersa nel buio. Sa, esiste il paradosso di
--Dall'hotel poi si è spostata per il Congo immagino
--Sì
--E?
--E mi sono appoggiata al primo gruppo pronto per la spedizione. Circa un'ora di trekking, diceva il ranger. Victor, il nome lo ricordo.
--Cos'altro ricordi?
--Cosa vuole, le avrà sentite un'infinità di volte certe cose. Il sorriso dei bambini durante il tragitto, per dirne una. In Turchia si dice che per amore della rosa si sopportano le spine. E durante il viaggio, nonostante l'ingorgo, qualcosa è scattato
--Dite sempre così
--Sbagliamo?
--Dite sempre così e una volta andati scordate ogneccosa
--Il viaggio, quello ci si può impegnare a dimenticarlo ma non succederà
--Hai visto solo bambini per strada?
--Ogni tanto chiudevo gli occhi e provavo a immaginare cosa avrei trovato una volta riaperti. È stato un viaggio surreale
--Ovvero?
--Ha presente quando vien da pensare "io qua ci son già stata"? Una sensazione strana, più viaggio più mi accorgo che i posti non sono poi così differenti. Nonostante millenni di scrittura, mancano ancora dei termini per descrivere certi sentimenti, non trova?
--Quanto è durato il trasferimento?
--Non saprei. Ero in dormiveglia e quei brividi di dolce malinconia che appannavano il finestrino mi han confuso un po' le idee. Credo che l'orologio me lo abbiano rubato già durante il volo anche se lo notai solo una volta arrivata alla dogana
--E sei arrivata al confine
--Esatto. Un centinaio di dollari per superarlo, come ben sa. E dopo, che dire ancora, insieme al gruppo ho seguito il sentiero principale del parco
--Il parco Virunga immagino
--Quello, sì. Ero in mezzo a un gruppo di gallesi. Sulla sessantina, gente tranquilla. Ero l'unica senza la reflex al collo, erano tutti allibiti
--Non ti interessano le foto?
--Preferisco vivere

Uno scossone ci distrae. La lampada si sposta proiettando il profilo dell'interlocutore sul muro. Credo di aver perso un battito, ho cercato conforto nello sguardo di quell'uomo ma niente, imperturbabile come se nulla fosse successo. Forse è davvero così.

--Dicevi della gente. In quanti erano?
--Sette. Cinque uomini due donne. Jane e Diana, le donne. Mcqualcosa, non ricordo. Brava gente. Mi dissero di essere sorelle, vedove, che i loro figli erano così deludenti che era loro intenzione spendere fino all'ultima sterlina per non lasciare eredità
--E gli uomini invece?
--Brava gente anche loro. Pensionati, goderecci. Uno poi voleva prestarmi a tutti i costi la sua macchina fotografica di scorta, diceva che era un sacrilegio altrimenti
--Hai rifiutato immagino
--Sì
--Quando li hai visti?
--I gorilla?
--Eh
--Il ranger si è bloccato, più per scena che altro, ha fatto "ssssh" e credo di non aver neppure respirato tanta era l'emozione. Ne ho visti quattro, due piccolini insieme ai genitori
--Continua
--Uno degli uomini ha detto "Silverback!, silverback!", e in effetti a pochi metri è comparso un enorme gorilla con la schiena argentata. Stava lì a ciondolare come un attore indiano
--Lo hai guardato?
--Ci ho provato, se non altro. Ma la mascherina che abbiamo dovuto indossare era troppo stretta, mi lacrimavano gli occhi. Ho provato ad allentarla ma il ranger non ne ha voluto sapere
--E' importante indossarla, infatti. Cos'altro ricordi?
--Le due signore erano emozionatissime alla vista di quel gorilla, giuro. Mi ha fatto stare così bene vedere che ci si può commuovere a tutte le età che ho iniziato a fare dei versi anche io, per ridere. Uno del gruppo ha consigliato di battermi sul petto. Un altro ha detto che ero brava a imitare, che sarei potuta divenire una esemplare di ragazza d'argento. Han riso tutti, non ne sono sicura ma credo anche i gorilla. Poi ne sono comparsi altri

Bussano alla porta. Bussano e l'uomo non si scompone. Mi giro in tempo per vedere la maniglia abbassarsi ma prima che qualcuno entri il poliziotto tossisce e il tempo si ferma. Mi guarda e io sto zitta. Non saprei che dire, in fondo. Solo che mi manca casa, la mia teiera, l'incenso, Rian. Sì, mi manca il sorriso di mio figlio. Il non averlo salutato prima che il destino me lo strappasse via. Cinque anni fa.

--Ne sono comparsi altri, quindi. Da dove. Quanti?
--Da... ovunque. Ricordo il machete di Victor, a ben pensarci aveva un'espressione preoccupata, credo fosse parte del trekking. In effetti è stato un buon pagare, immagino che
--Quanti ne hai visti?
--Di silverback o di gorilla in generale?
--Maschi. Adulti
--Io...

Non ricordo. Vuoto. Eppure. Sono stanca. Che sia...? Febbre? Febbre gialla? Dovrei toccarmi la fronte, così, senza dare nell'occhio. Forza Esme, ancora qualche risposta e tutto sarà finito.

--Io... non lo so

Qualcosa sbatte sulla porta, urlo dallo spavento. L'uomo finalmente si alza, non ne potevo più di sostenere il suo sguardo. Pochi passi e appena non mi vede sbircio i suoi appunti, per scoprire nient'altro che disegni. Fregata. Provo ad alzarmi per protestare ma le gambe cedono e schianto sulla sedia. Dico forte "Mi scusi eh!" e quando si rigira lo sguardo è quello di un ominide, gli occhi accigliati in una smorfia ferina. La porta si spalanca e una luce invade la stanza. Ho sonno, voci indistinte mi ronzano nelle orecchie, suoni gutturali di mondi che furono, quei mondi che mio padre raccontava per farmi addormentare. E' così, dunque. Sorrido. Mi alzo, d'improvviso leggera. 
Rian, amore mio, prepara il thè: sto arrivando.

giovedì 14 marzo 2013

ROAD TO KENYA 2013

VIAGGIO (ANDATA)



Ascolto i Pixies. Ho terminato un libro di Palahniuk da meno di cinque minuti (Survivor, comperato nell'agosto 2003. Era quasi l'ora di leggerlo). Il protagonista dirotta un aereo. Dimenticavo: in questo momento sono sull'aereo. Turco, a esser preciso. Credo sia mezzanotte, lo schermo dice che mancano 3 ore e 47 all'arrivo. Nairobi è l'ennesima meta. Conto di ritrovare un altro pezzetto di me, laggiù dove si dice che l'essere umano sia nato.
Africa, dunque. Io e i leoni, quando appena questa mattina la Zooey se ne stava a dormire sul mio braccio, lei e il suo musetto che quando mi guarda sembra dire "Io mi fido di te ma tu non fare lo stesso errore".
Forse questo viaggio servirà ad affrontare la mia codardia; non ho impedito che lei, la gatta alla quale una sera di settembre ho sussurrato "Avrò cura di te", venisse sterilizzata. Certo sì vivo in appartamento, lei stava male eccetera, il fatto è che avrei dovuto imporre la mia volontà e farla diventare mamma, almeno una volta. Pestifera com'è, avrebbe avuto cuccioli da non potere che amare. E invece. Non me lo perdonerò mai. Così il viaggio serve per ritrovarmi. E nel frattempo scappare. Da lei e da quell'italietta che vota ancora una volta quel tale, da chi non ho, dal mio io che non ha impedito la procreazione a una creatura. Il tizio di nome Silvio, poi. Che cosa particolare. Ha passato così tanti anni a imbambolarci col Si-La-Do delle sue concubine che al momento di votare gli italiani si sono riscoperti Bemolli.
La vita è una serie perpetua di errori e fughe o scuse per perdonarsi e giustificare gli sbagli successivi.
C'è un po' di turbolenza, ora.
L'mp3 passa dai Pixies ai Sigur Ros e mi viene da ridere, penso alla sensazione che ho avuto quando ero sugli iceberg e guardo lo schermo davanti con disegnato l'aereo che attraversa l'Etiopia. E' sempre così: si compiono delle cose mentre si pensa ad altre cose. Un po' come il sesso quando se ne fa troppo o l'altra persona inconsciamente comincia a piacerti meno.
Comunque.
Mi auguro che da qualche parte, tra i fenicotteri rosa e i ghepardi e le giraffe e i cuccioli di elefante, ci sia una pozzanghera lì ad aspettarmi.
Chissà, nel riflesso potrei vedere anche te.


APPUNTI VARI

Appena superato l'equatore le palle hanno iniziato a girarmi in senso antiorario.



Passando col pulmino le persone si mostrano salutando. Parrebbe quasi che il segreto del potere stia nel farsi adorare da chi è più forte e numeroso di te.
Il sorriso dei bambini, così puro e innato da cancellare il degrado attorno. Forse è questo il segreto del sorriso. Forse è questo ciò che mi manca: distinguere nelle persone i sorrisi disinteressati dalle paresi melliflue.
I negozi hanno nomi splendidi, sono sicuro di aver visto pure un NAMELESS SHOP.
I saliscendi infiniti
I babbuni per strada
Le kenyote
Il monte Kenya che sta in mezzo a colline travestite da montagne che chi-sa chiama Rift Valley
Gli altopiani danno l'impressione di essere in movimento, quasi che di notte diventino come la roccia della Storia Infinita, in giro a predicare l'avvento del nulla
Lo gnu fotografato un quarto d'ora dalla nascita e ribattezzato gnu entry
I ponteggi in legno
Gli ingorghi di Nairobi
La pioggia. Vedo la terra incapace a trattenerla, i rigagnoli di minuto in minuto più imponenti, le ruote del pulmino che slittano come guidate da un babbo natale fuori stagione. E il cielo, wow!, le nuvole che a strati lo dipingono di un grigio che è blu che è azzurro sporco che è benedizione che è indifferenza-di-chi-bruca che è nero shakerato con l'amore di chi muove i fili della vita. E rimango a guardare quei goccioloni col solito sorriso interiore da ebete di quando mi accorgo che ancora una infinità di eventi saranno in grado di stupirmi, bloccando e allungandomi la crescita. Quell'acqua sporca mi ha purificato molto più delle bottigliette sigillate che bevo durante le pause al lavoro.


SHAPESHIFTER


 
Nottata insonne pensando alle parole giuste da dirle l'indomani prima che sia troppo tardi, alla situazione perfetta o malinconica o indimenticabile o.
Avrebbe detto sì, se solo fossi stato un altro me.
E così mi sono semiaddormentato; con la consapevolezza che le mie contraddizioni ancora una volta avrebbero avuto la meglio. In effetti è successo questo, coi miei dettagli che già vedevo scolorire nei suoi occhi, con le parole non dette e bloccate in gola a solleticare l'incapacità di farmi amare. Il diavoletto sulla spalla sorride pronto a darmi il cinque, l'angioletto scuote la testa più incazzato che deluso e questa volta concordo con lui: che senso ha viaggiare se poi non riesco a condividere le emozioni(?).
Eppure.
Eppure non posso permettermi di perdere la speranza.
Analizzare l'Africa, scindere le sensazioni che mi sta lasciando; vorrei, devo, abbandonare questa carcassa da sconclusionato. Meritare un sorriso. Avrei dovuto saperlo che non era lei invece di aggrapparmi a quegli sguardi che di sicuro significavano altro e non ciò che mi servirebbe. Riderò di tutto questo, un giorno. Continuo a muovermi e la distanza non cambia.
L'Africa me lo sta sussurrando da un po', credo di iniziare a capire le parole di Pessoa che leggevo sottobanco da adolescente.
"Abdica,
e sii re di te stesso".
Il resto è fuffa. Devo terminare il periodo delle stilettate al cuore, sono al limite dell'anemia. E le parole d'amore scritte sul vetro tendono a scomparire, poco importa alimentare o meno la condensa.
Africa, lo sbruffone europeo che è partito spavaldo ora ti chiede aiuto.
Lascia che ti ricordi, lascia che mi dimentichi.


VIAGGIO (RITORNO)

Guardare gli animali della savana negli occhi è una scossa che smagnetizza le certezze.
So che in quel frangente loro non hanno le mie percezioni eppure lo stesso immagino che abbiano cercato di dirmi qualcosa, un monito per il futuro che riuscirò a decodificare presto.


 
Il musetto del ghepardo coi piccoli affianco e tutti e quattro a fissarmi: io lì, un imbecille con la macchina fotografica che quando affronta quegli occhi fa di tutto per restare in silenzio e non tremare, che nel pulmino degli avvistamenti non ero da solo e un uomo con le lacrime credo sia difficile da giustificare anche in un altro continente.
Mi è parso per un attimo, un attimo solo!, che col pensiero il felino mi stesse dicendo di guardare bene, osservare mentre si prende cura dei suoi cuccioli. Che il segreto è tutto lì.
Il tempo, una volta che tornerò in Europa, riprenderà a scorrere. E forse all'opposto io mi bloccherò. Merda. Maledizione al mal d'Africa. Sarebbe così bello spostare lo sguardo dal finestrino dell'aereo e invece che i due sedili vuoti potere vedere marmocchi, i miei!, tre?, quattro?, e la lei-che-verrà a stringermi la mano. Fieri, soddisfatti e fuori dal tempo come quegli elefanti che ho visto accudire i loro piccoli con un tipo di amore che non credevo possibile.



E allora sì!, in quel caso non dovrei temere o giustificare le lacrime.
Forza Liuk, forse così sarà.
Arrivederci, Africa.
E grazie.

martedì 15 gennaio 2013

LABIRINTITI.

SOUNDTRACK OF THE DAY
Territorial pissing – Nirvana
La verità che ricordavo – Afterhours
Hoppipolla – Sigur Ros

Succede che dal nulla capto parole in grado di modificarmi la giornata, di solito nei momenti in cui ho le orecchie in dormiveglia, tipo durante riunioni pranzi lezioni fila in posta o in quel limbo dei discorsi trascinati dove "tu mi parli io ti guardo convinto ma penso a tutt'altro".
A volte invece dò importanza a frasi del tutto innocenti buttate a casaccio – mi capitava anche coi testi delle canzoni, leggevo quelli stranieri convinto che la chiave di lettura della mia vita fosse tutta lì tra gli spazi bianchi delle lettere. Quando i Nirvana hanno inciso NeverMind avevo 11 anni, ricordo che alle medie durante l'ora di disegno chi voleva (io) portava una cassetta da sentire. Era il 91/92, tutti in valle crescevamo sotto il carisma della scia di Freddie Mercury e ascoltare qualcosa di diverso dai Queen (o dal pazzesco esordio di Elio & le storie tese) era impensabile, così scarabocchiando imparavo le traduzioni dei Nirvana. Finii col leggere "Just because you're paranoid / Don't mean they're not after you" e rimasi un poco traumatizzato. A pensarci adesso forse è anche per questo se ho un occhio tatuato sulla spalla, non si sa mai. smile
L'altro ieri invece è successo che me ne stavo tranquillo tra i miei viaggi mentali a pensare a chissàché mentre a lezione si stava procedendo con l'editing di chissàchi e chissàcome mi son ritrovato a scarabocchiare sui fogli di un capitolo di qualche collega. Labirinti, di vari generi. Dai classici quadrati tipo la settimana enigmistica a quelli rotondi, con un occhio a controllare il prof e l'altro che le righe fossero diritte.


 
E avanti così per un dieci minuti, credo. Finché la mia vicina (che quel giorno era tra l'altro una psicologa) prende il foglio, passa col dito su alcuni tracciati poi dice - Ma son tutti senza uscita. Così non ti troveremo mai -.
Credo di aver fatto la solita espressione da ebete per mascherare l'imbarazzo, un mezzo sorriso mentre per recuperare ho disegnato una crepa su un muro a mò di uscita: il risultato, un labirinto inguardabile. Tipo l'impressione che ci fanno le nostre facce quando la sera dopo ci mostrano foto scattate a tradimento in discoteca e l'idea di esser stati fighi si frantuma osservando smandibolate o le pupille commosse.
Così dopo aver richiuso il sorriso e il foglio mi son rimesso a fingere interesse per la lezione, nel mentre controllavo se nella spalla sinistra fosse già ricomparso il solito diavoletto a dirmi che sta storia del labirinto non è campata in aria, che sono asociale, che me ne rimarrò ad annoiare me stesso, che "stai zitto scemo non ti accorgi di pensare ad alta voce?".
E dal labirinto mi è venuto in mente il parco giochi sotto casa dove una volta un qualcosa del genere c'era, anche se l'altezza era credo sul metro e più che a nasconderci si giocava salendo sopra al muretto per correre in equilibrio sul perimetro. Ovviamente cadevo, credo che nel periodo delle elementari abbia lasciato più sangue e croste solo sull'asfalto del campo da calcio all'oratorio. 
Così sono passati gli anni e da allora, per un motivo o per l'altro, è sempre stato un continuo togliersi le croste (delusioni, vittorie dimenticate, rate della macchina, regali da fare, regali da consigliare, balli rifiutati, addii lasciati a metà, bottoni strappati ai concerti, numeri di telefono scordati, corsi abbandonati per pigrizia, discorsi mentali perfetti trasformati in parole al momento sbagliato, fuochi d'artificio guardati al di là del vetro, viaggi di ritorno a fissare il finestrino), come se la vita fosse un perpetuo graffiare. 
E io continuo a mangiarmi le unghie.


Qualche sera fa per far conoscenza si parlava delle scelte, di quella sorta di percorso (per dirla come i poeti della domenica mattina) che è la vita. Nonostante le miriadi di errori (qui si dice "se 'l giu-u a saveisa e 'l vej a pudeisa", cioè all'incirca "se il giovane sapesse e il vecchio potesse") non ho neppure motivo di lamentarmi su chi sono ora – anche perché non sapendo che rispondere al "cosa vorresti fare da grande" sarebbe ridicolo. L'unico pizzico di nostalgia per ciò che non è stato è il guardarsi indietro sempre meno convinto che quelle strade nella nebbia siano vicoli ciechi ma piuttosto sia stato io a credere fossero interrotte tenendo gli occhi chiusi dalla paura.
Non resta che armarsi di sorrisi&chitarra e procedere un passo dopo l'altro verso questo straordinario e assurdo viaggio, magari con lo sguardo alto a intuire quanto è splendido vivere e condividere.
E se ogni tanto si ha la necessità di guardare a terra non è poi una brutta cosa, in fondo le pozzanghere ci riflettono sempre bambini.

sabato 5 gennaio 2013

MI PRENDO E MI PORTO VIA.

SOUNDTRACK OF THE DAY

Be mine - REM
Teenage riot – Sonic Youth
True Love waits - Radiohead

Ieri ho pranzato a Torino in Piazza Vittorio godendomi una splendida giornata fuori stagione, col sole che mi filtrava tra la frangia spettinata. Avevo appena concluso la pratica per il rinnovo del passaporto e prima ancora di decidere il viaggio immaginavo a come ne sarei tornato differente.
E' sempre la stessa storia: ancora non ho fatto qualcosa che già mi proietto compiuto, forse perché così credo di faticare meno nel compierla. Un po' come il ciccione che guarda mediashopping e si immagina già con la tartaruga da frùfrù.
Ricordo per esempio che da piccolo, rinchiuso in un armadio di mio zio c'era un mandolino.
--Era di mio padre-- mi disse una volta.
Mi incuriosiva, guardavo spesso quella strana chitarra bombata in miniatura e se non c'era nessuno provavo a suonarlo.
Ci usciva ben poco, lo capivo già allora, anche se negli anni successivi delle superiori mi son ritrovato ad ascoltare gruppi statunitensi che non avrebbero fatto molto di meglio.
Non dicevo però a me stesso che non ne ero in grado, per una strana associazione di idee se mio nonno aveva conquistato mia nonna con le serenate sotto casa allora un DNA da mandolinista dovevo averlo per forza. Bastava semplicemente trovare l'elica corretta. E negare che di suonarlo, in fondo, me ne importava zero. Avrei preferito completare l'album degli Sgorbions, piuttosto.
Col tempo poi formai varie rockband dimenticandomi di quello strumento e delle serenate, ma questa è un'altra storia.
Dicevo: era una giornata molto calda, aspettavo la birra la pasta pomodoro&olive e tutti i tavoli accanto erano occupati da gente chiacchierona. Mi sentivo bene, coi capelli a ripararmi gli occhi dal riverbero e dagli sguardi indiscreti.
Poi si sa la mente è sciocca e mi è bastato un accenno di un vecchio brano dei REM en passant che taaak!, sono ripiombato indietro di anni, come avessi visto passeggiare un giovane Liuk così estraneo all'io attuale che a testa bassa canticchiava "I’ll strip the world that you must live in
of all its godforsaken greed. I’ll ply the tar out of your feathers. I’ll pluck the thorns out of your feet. You and me. You and me".


Ho bevuto la birra pensando a questa fissa che la gente ha sul cambiare per forza, come se rimanere sé stessi fosse un'onta. Che se si resta uguale si è noiosi e se si cambia si è inaffidabili. Bah.
Se avessi incontrato davvero il Liuk di -diciamo- 5 anni fa, forse non gli avrei stretto la mano però fermato di certo. E lui, lo so, avrebbe alzato lo sguardo risentito spegnendo una qualche canzone dei Radiohead da quello stupido Mp3 che avevo a forma di supposta e sarebbe rimasto in attesa per qualche secondo, la mano in tasca a controllare se il portafogli non era ancora stato scippato.
--Fidati un po' più degli altri-- gli avrei potuto dire --Fai sì con la testa quando ti danno consigli. E non seguirli. Mai--
Se non dovesse scappare (difficile che accada, correre tra la gente lo reputava un qualcosa di poco cool) potrei consigliarli di iscriversi subito alla scuola che sogna e di non dare corda a certa gente virtuale (l'avrebbero utilizzata per un nodo scorsoio). O forse non glielo avrei detto: in fondo le facciate servono a crescere, come dice Brunetta.
Spero perlomeno di non scoprirmi peggiore, se dovessi incontrarlo. Non troppo, almeno. Che poi in fondo chissenefrega. La paura del cambiare non mi tange granché, temevo più di rovesciarmi la birra in quel momento.
Comunque. Alla Holden c'è una persona che scrive davvero bene: cioè, è una donna e scrive da uomo in un modo così, così boh, così wow, una versione femminile a metà strada tra il mio mito Ian McEwan e Salinger. Di solito non mi garba molto leggere racconti di scrittrici che conosco, finisco sempre coll'essere imparziale, riempio le loro storie con particolari di chi le scrive, voce tic vestiti profumi occhiate discorsi scollature efelidi. E del resto la gente in linea di massima continua a non interessarmi granché purtroppo, quindi di riflesso pure i racconti. Lei invece è l'eccezione che speravo di trovare, come quella blogger che blablabla eccetera eccetera. Credo di essere attratto dalle artiste, dalle anime danzanti. Maledizione.
Ri-comunque. La collega holdeniana a un certo punto piazza una frase del tipo "Dopo i trenta tutto è senza impegno, nel senso che nessuno si impegna in niente, e allora mi sono detto perché dovrei farlo io" e ho pensato che a leggerla ora è uno spettacolo, ora che inizia l'anno e uno vanamente stila la lista delle cose che "Cascasse una pannocchia quest'anno farò!".
Iscriversi in palestra, trovare una casa col giardino, pubblicare il libro e finirne uno di Pynchon e Foster Wallace, interrompere una ola allo stadio, chiedere un aumento di stipendio, sgambettare un'ombra, innamorarmi di un'idea e/o di una ragazza, cose così.
Beh, dovrei ringraziarla per i maldipancia che eviterò smile
Dicevo. A fine serata mi son infilato sul solito pullmann traballante e la velocità minima mi ha permesso di ammirare un cielo rosa al di là delle alpi da cartolina ("Troppo caldo, troppo rosa e troppo bello, tempo da terremoto", direbbe mia nonna).
Guardavo dal finestrino che già fremevo pensando ai miagolii che fa Zooey ogni volta che mi avvicino alla porta di casa, probabilmente avrò anche accennato un paio di sorrisi, di quelli che quando vedi qualcuno farli sul tram pensi "ma questo è scemo".


 
Forza Liuk, arriverà il tuo turno, va tutto bene. Hai pure comprato la camicia di Dylan Dog alla Rinascente e una a righe grigionera di CK che ti sta d'incanto.
Forza Liuk, va tutto bene.
Scriverlo in fondo non costa nulla.
Che poi, voglio dire: basta parole. E l'ora di sporcarsi di vita.
STAY TUNED