martedì 27 agosto 2013

BYEBYE FARWEST. CRONACHE DAL DESERTO DEL MOJAVE.

SOUNDTRACK OF THE DAY

One bourbon one scotch one beer – John Lee Hooker
I want you – Bob Dylan
Route 66 – Chuck Berry
Caroline – Wolfmother


WEEKEND IN LA



Passeggiare per Rodeo Street, Beverly Hills, è terapeutico. Ti viene da pensare che dietro le varie vetrine di Gucci Valentino Zegna & co. ci sia lo spirito di Freud a battere sui vetri, bum bum bum, senti il rumore delle nocche che sfregano rossastre ma intorno non vedi che ragazze e uomini con borsate di vestiti e quasi ci rinunci a scoprire cosa sia quel rumore, prosegui a mirare altri manichini imbellettati di tutto punto per improponibili feste, credi quasi che basta guardarli per essere parte dell'Americacheconta e proprio quando l'idea inizia ad avvelenarti - giù dalla trachea, glugluglugluglu - di nuovo il sordo rumore delle nocche torna a martellarti.
A martellarmi, per essere precisino.
Dimentichi i nomi griffati e ti dai un colpo in fronte, meglio se accompagnato da un "Ma come ho fatto a non pensarci prima?".
E non ti resta che una cosa da fare: chiudere gli occhi.
Chiudo gli occhi.
Li riapro, riprendo a camminare, le facce e le gambe nude sono ancora tutte lì, la macchina fotografica appesa al collo a mò di zavorra. Poi le riguardi, le vetrine. E, cazzo!, un Freud psichedelico e bellissimo con la t shirt sgargiante come quei personaggi hippie peace&love che abbelliscono le spiagge di Venice Beach è immobile e ti fissa. Mi fissa!

Fa l'occhiolino e poi scompare, ma non ti credere, la vetrina mica torna a violentarti i bulbi oculari con quei manichini pazzoidi, eh no!, eh no mio caro lettore, al loro posto c'è il senso dell'illusione, l'amore di plastica, il messaggio che lo psicologo barbuto ti ha lasciato prima di tornare evanescente.
Tutto è effimero e tutto è ciò che credi erroneamente amore.
Hai presente adesso?, li visualizzi bene i volti di quegli pseudoamori passati?, quelli che ora ti vergogni a ricordare, di quelli che giustifichi te stesso col "Sì vabbè ma a quei tempi non capivo niente?"
Passeggi, passeggio, e per qualche minuto in ogni vetrina di Beverly Hills vedi il volto di una persona che credevi di aver amato, quasi fossi un Ebenezer Scrooge californiano in via di improvvisa penitenza. E così anch'io, a riempire le vetrine di SilviaChiaraFrancescaAnnaStefaniaElisaEcceteraEccetera, nomi su nomi su nomi che sovrapposti si mischiano fino a divertare null'altro che lettere prive di senso, così dalla confusione mi giro a guardar la collina e vedo altre lettere a comporre la scritta "Hollywood" e rido – ma sottovoce eh, che di fronte ci sono due cinesine carucce non vorrei far brutta figura.


Le cose finte sono quindi lettere sovrapposte? E quelle vere, che sono? Ma poi, cosa sono le cose? E ancora: possibile che non posso semplicemente godermi una passeggiata?
Poi l'incanto sparisce, è tempo di rimettersi in marcia verso Las Vegas e i manichini tornano a governare il quartiere di plastica, la via degli amori che non erano tali, degli oggetti che mai e poi mai ti sciacqueranno le macchie dell'anima.
Los Angeles è digeribile come una torta al botulino, dove a ogni fetta ingerita non capisci se a esser finta sia lei oppure tu. E ti ritrovi col piatto in mano a chiederne ancora, solo un'altra, che male potrà mai farmi in fondo?
Il sogno americano è l'oblio dell'incubo europeo.
In quel caos da videogioco è semplice capire ciò che sta dietro a El Pueblo de Nuestra Senora de los Angeles de Porciuncula de Asis. In una città con quel nome non c'è da stupirsi del traffico assurdo. In fondo noi siamo esseri umani privi di ali, non angeli, perdìo!



BRYCE CANYON

Il rosso. Il giallo. Il Diosolosachetonalità. Il Bryce Canyon è l'ultima goccia della madre di ogneccosa precipitata sulla terra, prima che entrasse in menopausa.

E' pioggia fertile sotto forma di deserto.

ON THE ROAD

Nevada, con le sue luci della notte che non ne vuole sapere di uscire dalla tana.
E via, attraversarla guardando gli infiniti tralicci provenienti dal nulla, dall'inferno?, verso la città della plastica elettrificata.
E seguire la direzione opposta.
Controcorrente.
Borderline di me stesso.
Avanti, dunque. Fino a scovare il cartello Arizona, coi suoi cactus che ai lati pungono e vengono punzecchiati dal vento. Tutt'intorno arenaria fin dove la retina ne sopporta il riverbero. Eppure anche qua l'America si mostra implacabile e dolcemente nostalgica, tempo di ambientarsi al termine Arizona che il verde, il lago, i Navajo, le betulle, l'aria frizzante, le casette di legno pace&empatia si fondono in una parola di quattro lettere: Utah. Aiutati che 'l ciel t'a-Utah.
Le strade tortuose ti shakerano fino a che non ti si sgasa l'acredine del finto vivere di Los Angeles e Las Vegas, tanto da iniziare ad amare ugualmente quelle contraddizioni, quasi che l'America sia in realtà un insieme di pensieri e convinzioni antitetiche della nostra vita. Contrastanti. E tutto sommato vere. E nella loro stramba concezione di vita dipesa dal petrolio, inizi a dirlo sottovoce, con meno vergogna di una settimana fa: God bless America.



ANTELOPE CREEK

Se alzi lo sguardo, c'è una ferita azzurrognola denominata cielo.
Se poi te ne freghi del torcicollo e di inciampare nella gola di sì e no due metri ti si insinuano pensieri da stillicidio: e se fossi finito in una clessidra e in questa grotta la mia vita fosse capovolta? E se sfidassi la gravità e saltando cadessi nel buco infinito che ora è il cielo?
Mi riprendo, tocco le pareti guardando avanti e ringrazio gli dèi di aver fatto sì che questo lembo di Gaia sia stato costruito con pietre friabili, preservandole dalle pazzie degli architetti.
Sfioro la sabbia e la sabbia mi parla in un silenzio scintillante.
Un giorno capirò le sue parole, lo so. E anche tu.

ALBA AL MONUMENT VALLEY

Superato l'invisibile confine tra Utah e Arizona, nella terra dei Navajo.
La Monument Valley è lì, le Tre Sorelle mi aspettano e tra le prime luci dell'alba il silenzio che mi ammanta echeggia tanto da far male alle orecchie. E capisco il senso, mentre affondo le caviglie nella sabbia, di quando da piccolo leggevo le poesie indiane che spiegavano "La voce della terra è la mia voce".



BREAKFAST

La giovane navajo sorride premurosa che il piatto della colazione non mi ustioni le dita. Io ringrazio e guardandola negli occhi comprendo quanta dolcezza ci sia in quel sorriso spontaneo. Mangio, mi porge lo scontrino e sul retro ha disegnato col trattopen verde il volto di un topino felice con sotto scritto Thank you.
Giuro, certi piccoli dettagli fanno bene al cuore.
Che poi uno può ascoltare tutte le radio stazioni che vuole ma la frequenza dell'Amore Universale si trova sempre e solo tra le pieghe di un sorriso.

SUA MAESTA', GRAND CANYON

Bob Dylan mi ripete dalle cuffie dell'iPod che The times are A-changin', io passeggio con lo sguardo fisso su quelle fratture di rocce sabbia calcare e granito che è il Grand Canyon e faccio sì con la testa. C'è una frattura in particolare che ti rapisce. Cioè, è tutto così strawow che l'occhio fatica a registrare i dettagli e ti senti spaesato come una macchina fotografica che per mettere a fuoco il paesaggio continua a smuovere gli ingranaggi, tuttavia c'è un punto dove ti si scatena l'entusiasmo delle domande a cui vorresti davvero rispondere. Una frattura taglia il paesaggio e si perde verso l'infinito, eppure allo stesso tempo la voglia di scendere laggiù, scaricare lo zaino dai rimpianti e riempirlo di gioia, pur sapendo di non fare ritorno, è lì a premere.
Che certe cose non vanno ragionate.
Vanno vissute.

E un po' mi è dispiaciuto non aver indossato la tuta alare per lanciarmi. Una parte di me continua a dire che se l'avessi percorsa avrei trovato il luogo dove finiscono gli arcobaleni, il luogo dove le anime dei viaggiatori lavano la loro coscienza, il moleskine e l'infradito.
Nel romanzo che prima o poi uscirà, River alla fine dell'arcobaleno il pentolone lo trova. Dentro non c'è oro ma un biglietto con su scritto "Try again". Questo perché lui questo posto non l'ha visto. Sono sicuro che avrebbe apprezzato.
Fino a ieri il Grand Canyon era la mia più bella cosa mai successa. Oggi che mi ha permeato di magnificenza e malinconia, non mi resti che tu. Quando saprò chi sei te lo dirò, giurin giurello. The times are A-changin', dopotutto.
Il Grand Canyon è una puttana anarchica e caritatevole che ha aperto allo stesso modo le gambe a me e alle altre persone intorno, consapevole che ognuno di noi a un certo punto dovrà chissàcome saldare il conto.
Per adesso, grazie.

THE JOSHUA TREE

Oggi ho avuto una visione, di quelle vere e rivelatrici intendo, non c'entra nulla la solita temperatura a 100°F, le sinapsi erano tutte belle fresche e vigili. All'entrata del Joshua Park – sì, lui, quello del disco di quel gruppo irlandese - ho visto la donna che possiede le caratteristiche in grado di smantellare la mia coriacea corazza da single, con tanto di braccio tatuato a colori e aura da pacifista. Ciò che non sarà mia moglie, I suppose. E allora perché invece di scriverlo non ti sei semplicemente presentato e poi chissà?, perché?
Perché? Semplice. Potrei giustificare me stesso dicendo che non era quello IL momento, che non so in che lingua comunicare... le scuse arrivano tranquille in doppia cifra ma la verità è che ne ero terrorizzato. E la vera verità è che ancora oggi, nonostante 32 anni e 10 mesi di ricerche, continuo a essere uno stupido, nella migliore delle opzioni. Sappiate solo che se mai doveste vedere il Joshua National Park, dopo l'entrata principale vi imbatterete in un bar e lì la Dea – chissà come si chiama, qual è il suo colore preferito, se nel cassetto dei sogni ha ritagliato lo spazio per un viaggio in Italia - la incontrerete seduta di fronte al Pc, intenta ad arricciarsi i capelli. Neanche Bye le ho detto uscendo, certe volte mi prenderei a calci nel culo fino a far sanguinare l'ombra.
Comunque.
Il parco è uno spettacolo, la faglia di Andrea si è mostrata in tutta la sua bellezza e da buon geologo mancato ho goduto del panorama con sottoretina i ricordi della lussureggiante Rift Valley. Il deserto del Mojave incontra quello del Colorado con l'imbarazzo di due cugini che alla cena di ferragosto scoprono di avere la stessa madre, pur se esteriormente pochi dettagli ne avessero anticipato agli occhi dei meno attenti la rivelazione.

E' l'infinito, e io non ho fatto altro che saltellare da un masso all'altro cercando l'equilibrio per vivere al meglio il momento senza disturbare. Sono rimasto a fissare lo spazio in silenzio, un po' per godermi l'ennesimo Panorama delle Mille Domande e un po' per non infastidire a distanza i gesti della ragazza tatuata contenitrice dei miei ideali.

COSA HO IMPARATO DAL VIAGGIO?

Attraversando la Route 66, tra contraddizioni della real america, vite gonfiabili giocate ai tavoli della roulette, orizzonti creati da dèi in stato di grazia e storie di persone splendide – non personaggi, persone - che non ho intenzione di abbandonare senza intrecciarne ancora il mio destino al loro, il messaggio che ho compreso sta in un adesivo comperato a Falstaff, pronto pronto per esser appiccicato sul bagagliaio della Micra:

E' l'amore, nelle sue mille sfaccettaure, a smuovere le cose. Tutte le altre azioni sprovviste sono poco meno di gesti meccanici, privi di significato al di fuori della sopravvivenza fisica e momentanea. Le persone che ho conosciuto in questi giorni le amo tutte indistintamente, e una volta compreso questo cosa può torcermi la paura?
Possa il Far West depositare i crotali delle insicurezze nella distesa del tuo cuore priva di rocce e anfratti, oh lettore.
La paura è buio, l'amore è fluorescente.

CHICAGO

Alla fine del viaggio non si trovano pentoloni d'oro, dunque, ma locali di una città splendida che odorano di storia e musica blues.

Il blues, sì. Quello vero, intendo.
Quello che sfrega l'amuchina sulle ferite del tuo cuore dopo averle scartavetrate a suon di scale pentatoniche e gorgheggi in Si minore.
Il blues ti tende la mano e nel momento in cui decidi di accettare il suo invito ti trasformi nel megafono di te stesso.
E così mi son ritrovato a scolare qualche birra locale, di fronte ai deliri di una armonica al sapore di veleno che dopo avermi riportato ai livelli di quando la chitarra era la mia espressione mi ha sbattuto a terra con violenza, lasciandomi affogare in un mare di post-it zeppi delle mie insicurezze.
Il blues è un demone mai in saldo, oh lettore.
Puoi non vedere, puoi rifiutarlo, lui comunque se ne frega ghigna e fa leva sui tuoi dubbi a suon di Mi settime e La maggiori.
Il blues è l'amante che ti sporca di rossetto il vestito buono.
Il blues è lo specchio che ti mostra gli errori irrisolvibili.
Il blues, sì, il blues, sono io che ti guardo vivere mentre colpisco sempre più violento la campana di vetro che mi impedisce di raggiungerti, senza preoccuparmi se una volta libero mi vorrai vedere.
Il blues è la mano lorda di fango pronta a darti la carezza più dolce che mai.
Il blues è la Mamma Oca che ti spinge verso la libertà senza spiegarti che cosa sia.
Il blues è il punto interrogativo che sta sospeso nell'attimo precedente al nostro possibile primo bacio.
Thank you, America.
Immergendo le mani nel brodo delle tue contraddizioni ho trovato altre tessere del mio puzzle, immagini domande e risposte sono un poco più chiare, ora.
May the long time sun shine upon you.

lunedì 12 agosto 2013

OGNI STOP È SOLO UN ALTRO START.

SOUNDTRACK OF THE DAY

Badlands – Bruce Springsteen
Oggetto piccolo (a) – Virginiana Miller
Surrender – Cheap trick



Poco fa son sceso a far spesa e in buca c'era una grossa busta marrone ad attendermi, di quelle che fai mente locale, pensi a cosa hai combinato negli ultimi tempi e la sfiori col sudore freddo che sfida l'afa. Dentro c'era il diploma della Holden. Spiegazzato, of course.
Anche quel sogno si è realizzato –o meglio: il diploma è un pezzo di carta che sta lì a pizzicarti le guance per svegliarti, che il mondo competitivo se ne fa ben poco di chi adora la fase onirica.
Anche Zooey me lo ripete ogni mattina, tra un meow e un morso sulla mano.
E così, a livello letterario, sono di nuovo orfano.
E ora? Il romanzo è terminato ma l'attesa di un editore no, tanto che al posto di prendermi una pausa mi sono impregnato di mille progetti. Così facendo posso rispondere a mia nonna, quando ogni giorno mi ricorda che è ora di trovarsi una ragazza bella e intelligente, che «Ora ho altro da fare.»
E che sarebbero queste scuse?
Ho iniziato a studiare il russo, per esempio.
A forza di lavorarci insieme mi son detto che se loro mi parlano in italiano, sicuro il russo lo saprò pure io. E che cavolo. Beh, è tosto in effetti. Per di più sto imparando da solo, anche se in autunno da qualche parte un corso lo troverò e ogni tanto una simil collega mi corregge volentieri gli strafalcioni.
Il loro alfabeto è, come dire, affascinante. Lo giuro. Scrivere C ma pronunciare S. Scrivere P e pronunciare R. Cose così.
Ma una cosa è davero stupenda: a differenza nostra, ogni suono ha un simbolo ben preciso. Voglio dire: noi scriviamo G e la leggiamo GI o GH a seconda della parola (che ne so... gioco, gatto), loro hanno due simboli ben distinti. È un po' una metafora dell'umanità: a ognuno di noi corrisponde un suono univoco, ma solo imparando tutti i suoni con le loro differenze si può comprendere la comunità. Così al momento ho imparato a leggerlo, pur non sapendo ancora COSA leggo. Mi sembra di tornare indietro di anni ai tempi delle superiori, quando studiavo i testi di diritto penale senza capirci nulla! smile
Che altro? Ah sì, a volte mi sveglio la notte con l'eco di un frrrrr frrrrr potente. Capita che a fianco ci sia Zooey ma più probabilmente la colpa è del sogno ricorrente di accarezzare il ghepardo che ho visto qualche mese fa.
L'Africa è subdola, tu lavori vivi mangi urli scopi giochi ma quando ti addormenti dimentichi che è lei ad avere le chiavi dei tuoi sogni. E non posso che accettarla, accoglierla in me.
Pure se il giorno dopo al lavoro avrà a che fare con progetti di granito ed edifici russi: l'Africa, della realtà, se ne frega. Che abbia ragione lei?
L'ho visitata per trovare certezze e ora convivo con un altro campo mentale seminato di dubbi e domande. E ogni volta che chiudo gli occhi ghepardi aquile elefanti e leonesse potano le erbacce e curano i baobab. Bah. Comunque.
Il romanzo è terminato, dicevo.
Mancava un tassello, in verità: visto che parla indirettamente della cultura hippy e visto che nelle domande ci sguazzo allegro mi sono deciso di sorvolare l'oceano e vivere i posti dove tutto ha avuto inizio. California, Route 66, Grand Canyon, Far West... parole che a breve trasformerò in immagini che diverranno emozioni e forse mi chiariranno alcune domande sul perché infestiamo questo pianeta. Credendoci superiori agli altri esseri viventi, tra l'altro.
Che possiamo fingere saggezza all'infinito, ma le risposte importanti ci vengono sempre fornite dalla natura, mai dagli uomini (Bruce Springsteen, perdonami smile ).
Già so che al ritorno avrò ancora più dubbi, ma se riuscissi a trovare anche solo un barlume di senso a tutto questo sperperare attimi, beh... vi terrò aggiornati.
Male che vada finirò col confondere Navajo e leoni, nel dormiveglia.
E poi a Los Angeles c'è Tim Burton, se davvero quella è la terra delle opportunità allora lo incontrerò. Poi chissà. Ah, son preso bene!, anche se abbandonare la Zooey per qualche giorno mi stringe il cuore (ora mi sta fissando col dentino fuori, agguato in vista).


E quindi via!, di nuovo in viaggio verso me stesso col mio fido moleskine, alla ricerca di ispirazione per il prossimo romanzo (che girerà attorno alla domanda «E se in una lacrima fosse racchiusa tutta la tua storia e di chi ti sta accanto?») e di un qualcosa.che.non.so in grado di rendermi un uomo migliore.
Alla ragazza che un giorno incontrerò farà piacere, forse.
A mia nonna sicuramente.

STAY TUNED